L’effetto Umami: il gusto che inganna il cervello 

L’effetto Umami: il gusto che inganna il cervello 

di Dott. Sergio Carlucci

Da piccoli ci insegnano che i gusti fondamentali sono quattro: dolce, salato, amaro e acido.

Poi, quasi come un segreto rivelato tardi, scopriamo che ne esiste un quinto. Più misterioso, meno immediato, ma decisamente potente. Si chiama umami, una parola giapponese che possiamo tradurre come “saporito”, ma che in realtà è molto di più. È il gusto della profondità, della soddisfazione, della pienezza. Ed è anche – secondo molte ricerche – un gusto capace di ingannare il cervello, influenzando fame, sazietà, desiderio e perfino emozioni. 

L’umami non è una novità dell’era foodie.

È stato identificato formalmente nel 1908 dal chimico giapponese Kikunae Ikeda, che isolò il glutammato monosodico (MSG) come responsabile di quella sensazione intensa e piacevole che si prova, ad esempio, assaggiando un brodo di carne, un parmigiano stagionato o un’alga kombu. Oggi sappiamo che l’umami è fondamentale nell’equilibrio gustativo e che ha un impatto diretto sulla nostra neurobiologia del gusto. 

 

Che cos’è, davvero, l’umami? 

L’umami non è solo un sapore: è un segnale biochimico. È associato alla presenza di aminoacidi liberi, in particolare il glutammato, e di nucleotidi come l’inosinato e il guanilato. Il sapore di glutammato è presente in modo particolare in cibi ricchi di proteine.

Come gli altri recettori del dolce e dell’amaro, l’umami viene riconosciuto principalmente da recettori associati a proteine G. Quando questi composti entrano in contatto con i recettori specifici presenti sulla nostra lingua, il cervello riceve un’informazione precisa: “questo cibo è proteico, nutriente, prezioso”. In termini evolutivi, è un segnale positivo, quasi un semaforo verde per l’assunzione di alimenti densi di energia. 

Il fatto interessante è che il gusto umami non si limita a farci dire “che buono”, ma attiva una risposta cerebrale molto più complessa. Coinvolge l’ipotalamo, il sistema limbico e persino i circuiti della ricompensa, gli stessi che entrano in gioco quando proviamo piacere, motivazione o gratificazione. 

Avendo i suoi specifici recettori, piuttosto che essere percepito da una combinazione di altri recettori gustativi riconosciuti, l’umami è ora scientificamente accettato come un gusto fondamentale distinto. 

 

L’umami e il cervello: una comunicazione sottile ma potente 

Quando assaggiamo qualcosa di umami – come una vellutata con parmigiano, un miso ben fermentato o un pomodoro essiccato – non stiamo solo assaporando un gusto.

Stiamo attivando una catena di segnali neurali che modulano la produzione di dopamina, il neurotrasmettitore del piacere. Questo effetto può spiegarne il potere di “consolazione” che certi piatti hanno su di noi: ci sentiamo appagati, coccolati, soddisfatti in profondità. 

Uno studio pubblicato sul Journal of Neurophysiology ha dimostrato che i recettori dell’umami non si trovano solo sulla lingua, ma anche nell’intestino e persino nello stomaco, suggerendo che il corpo usi questo gusto come segnale integrato per il bilancio proteico e calorico. In altre parole, l’umami non parla solo alla bocca, ma dialoga con il cervello attraverso l’intestino. 

 

Il trucco dell’umami: quando il gusto supera il contenuto 

Uno degli aspetti più affascinanti – e talvolta pericolosi – dell’umami è la sua capacità di farci percepire come “sazianti” o “nutrienti” cibi che in realtà non lo sono.

Alcuni alimenti processati, ad esempio, vengono addizionati di glutammato per amplificare la palatabilità. Così un prodotto poco ricco dal punto di vista nutrizionale può sembrare irresistibile al gusto. Il cervello riceve lo stimolo tipico degli alimenti proteici, ma l’effettivo valore biologico è scarso. Questo può alterare i meccanismi della fame e della sazietà e portarci a mangiare più del necessario. 

Non a caso, il glutammato è al centro di molte discussioni nella nutrizione contemporanea. Anche se l’EFSA e altre autorità sanitarie lo considerano sicuro entro certe dosi, il suo uso massiccio e nascosto in moltissimi prodotti industriali solleva interrogativi. Non tanto per una tossicità diretta, ma per l’effetto ingannevole che può avere sulla percezione del cibo. 

 

Umami naturale vs umami industriale 

È importante distinguere tra l’umami che si trova naturalmente in alcuni alimenti – come il Parmigiano Reggiano, i funghi shiitake, la salsa di soia tradizionale, i pomodori maturi, le acciughe – e quello aggiunto artificialmente, sotto forma di additivi come il glutammato monosodico (E621).

Anche se chimicamente simili, l’effetto globale sull’organismo cambia in base al contesto alimentare in cui queste sostanze sono inserite. 

Un alimento naturalmente ricco di umami è spesso anche ricco di micronutrienti, fibre, composti antiossidanti, mentre i prodotti industriali ad alta palatabilità tendono a essere poveri di questi elementi e ricchi di zuccheri, grassi saturi o sale. Questo squilibrio può trasformare l’umami da alleato sensoriale a strumento per ingannare la biologia del gusto. 

 

L’effetto Umami il gusto che inganna il cervello

 

Umami e longevità: c’è davvero un legame? 

Se parliamo di alimentazione per la longevità, l’umami entra in scena in modo ambiguo.

Da una parte, il gusto umami è fondamentale nella cucina giapponese, una delle più studiate per gli effetti protettivi sull’invecchiamento.

La dieta nipponica tradizionale è ricca di alimenti fermentati, brodi di pesce, alghe e funghi – tutte fonti naturali di umami.

Questi cibi, oltre a essere gustosi, sono anche leggeri, ricchi di prebiotici e antiossidanti, e contribuiscono a un buon equilibrio intestinale, che oggi sappiamo essere collegato alla salute sistemica e alla longevità. 

Dall’altra parte, però, un eccesso di umami “artificiale” può stimolare eccessivamente l’appetito e contribuire a diete ipercaloriche, sbilanciate, poco varie. Il cervello viene “attivato” come se avesse ricevuto proteine nobili, ma spesso si tratta di una percezione ingannevole. Il risultato? Fame che non si spegne, senso di sazietà alterato e desiderio di alimenti sempre più intensi, che possono sfociare in abitudini alimentari compulsive. 

Pertanto, sebbene l’umami possa avere un ruolo positivo, è essenziale che sia inserito in una dieta bilanciata e varia, che includa anche altri nutrienti essenziali per la salute e la longevità, grazie ai suoi benefici sul gusto e sulla riduzione del sale.

Una dieta ricca di zuccheri raffinati, carboidrati, carni trasformate e latticini, invece, potrebbe avere effetti negativi sulla salute e su un invecchiamento sano. 

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Una questione culturale (e di consapevolezza) 

L’effetto umami non va demonizzato, ma compreso. È un elemento affascinante della nostra percezione sensoriale, e può rendere l’alimentazione più appagante e completa. Ma come accade per il dolce, anche per l’umami è fondamentale recuperare la consapevolezza, capire da dove proviene quella sensazione così piena e imparare a distinguerne la qualità.

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